05 Giu Rinuncia al credito e redditi di impresa: la sola sopravvenienza passiva non costituisce presupposto per contabilizzare un costo pluriennale.
La reciproca rinuncia di credito derivante da accordo transattivo non è sufficiente a giustificare l’iscrizione in bilancio di immobilizzazioni immateriali se manca la prova dell’utilità futura, che deve essere valutata in termini oggettivi.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23827 del 2016, è tornata ad esaminare la questione della corretta imputazione a bilancio – nonché i conseguenti riflessi tributari – della rinuncia ai reciproci crediti per effetto di un intervenuto accordo transattivo.
Nel caso di specie, una società aveva deciso di iscrivere nelle poste dell’attivo (quale immobilizzazione immateriale) l’importo pagato per una transazione, in quanto avrebbe permesso all’azienda di realizzare eventuali sviluppi di mercato. A tale ricostruzione, però, si è opposta l’Agenzia delle Entrate, contestando la legittimità dell’impostazione e rivendicando il proprio potere di sindacabilità sulle decisioni contabili d’impresa.
Secondo un orientamento ormai consolidato (invero non scevro da critiche), i giudici di legittimità si sono espressi in favore dell’Amministrazione finanziaria, affermando che se il principio di derivazione (art. 83 TUIR), da un lato, dispone l’indubbia valenza fiscale delle risultanze del conto economico, dall’altro consente specularmente al Fisco di verificare l’esatta rispondenza del bilancio alle regole tecniche e alla normativa di riferimento, per mezzo dell’accertamento in rettifica.
Con riguardo alla vicenda in esame, l’accertamento dell’autorità fiscale ha evidenziato come non poteva ritenersi sussistente il presupposto dell’utilità pluriennale in relazione alla sopravvenienza passiva derivante da accordo transattivo. Per poter essere iscritto tra le immobilizzazioni immateriali (in una delle categorie previste dall’art. 2424 c.c.) suscettibili di essere ammortizzate in un periodo non superiore a 5 anni, infatti, un costo deve necessariamente soddisfare una serie di elementi oggettivi. Tali condizioni, come si evince in sentenza, ricorrono quando sono fondatamente ipotizzabili ricavi che verranno conseguiti in futuro in diretto collegamento con il costo sostenuto nell’esercizio.
Per la Suprema Corte, non può ritenersi realizzata una simile correlazione nel caso in cui i costi sostenuti per l’accordo transattivo (ben diversi dai costi d’impianto ed ampliamento, oppure dai costi R&D e pubblicitari di cui alla disciplina civilistica) contribuiscano esclusivamente a limitare perdite potenziali o a porre fine ad un lite. In questo caso, tenendo conto della funzione tipica della transazione, la società conseguirà eventualmente un “risparmio” di spesa una tantum, di regola non caratterizzato dal collegamento con futuri benefici di natura diversa.