29 Lug Licenziato chi sta troppo su Facebook
Il Tribunale di Brescia ha confermato il licenziamento di una lavoratrice scoperta ad usare il computer aziendale per consultare Facebook e la sua mail personale, senza autorizzazione del datore di lavoro.
Rischia il posto chi sta troppo tempo su Facebook. E il datore di lavoro, per provare gli accessi al web del dipendente, può controllare la cronologia del computer. Lo ha deciso il Tribunale di Brescia che, con la sentenza 782 del 13 giugno 2016, ha confermato il licenziamento di una lavoratrice scoperta a usare il computer aziendale per consultare Facebook e la sua mail personale, senza autorizzazione del datore di lavoro.
La lavoratrice ha contestato il licenziamento negando di avere fatto gli accessi a internet e affermando che le prove portate dal datore di lavoro non erano valide in quanto acquisite in violazione della privacy. Ma il tribunale ha respinto la domanda. Il giudice ha infatti escluso che il datore di lavoro abbia violato la privacy o lo Statuto dei lavoratori (legge 300/70, che all’articolo 4 circoscrive l’utilizzo degli impianti audiovisivi e degli altri strumenti di controllo) perché si era limitato a stampare la cronologia del computer, e ciò non richiede l’installazione di alcun dispositivo di controllo. In particolare, secondo il tribunale, il datore di lavoro non ha violato la privacy della dipendente perché ha consultato dati che vengono registrati da qualsiasi computer e che sono stati stampati solo per verificare l’utilizzo di uno strumento messo a disposizione per svolgere il lavoro. Inoltre, non è stato violato lo Statuto dei lavoratori perché non si è trattato di controlli sulla produttività e l’efficienza della dipendente ma relativi a «condotte estranee alla prestazione».
Confermati così gli accessi al web contestati, il giudice ha sottolineato che la condotta della dipendente è «senza dubbio grave», dato che ha fatto circa 6.000 accessi in 18 mesi, dei quali 4.500 a Facebook, durante l’orario di lavoro; in pratica, sono 16 accessi al giorno fatti su tre ore in media di lavoro. Per il tribunale si tratta di un «comportamento idoneo a incrinare la fiducia del datore di lavoro», dato che il lavoratore ha sottratto «costantemente e per lungo tempo» ore alla prestazione lavorativa e ha utilizzato impropriamente lo strumento di lavoro, approfittando del fatto che il datore di lavoro non la sottoponesse a rigidi controlli.